“Gifted”- Il film
Gifted non è un film semplice, né divertente, né facile; è un film drammatico, non una favoletta. È complesso come la realtà degli esseri umani che descrive. Ci insegna che si è gifted dalla nascita, lo si è da bambini e si continua ad esserlo tutta la vita.
Nell’aprile del 2017 è uscito negli USA il film “Gifted”, film molto atteso dalla comunità gifted. Verso la fine dell’anno è uscito anche nelle sale italiane con il titolo “Gifted – Il dono del talento”.
Il film è estremamente interessante per la tematica che presenta e abbiamo pensato di proporvi una nostra recensione.
Mary (Mckenna Grace) ha 7 anni, e questa mattina si sta preparando per il suo primo giorno di scuola assieme a Frank (Chris Evans). Bambina sorprendentemente decisa, che parla da pari a pari con l’adulto che ha di fronte, Mary non è per niente entusiasta di andare a scuola. E non è entusiasta dell’idea neppure Roberta (Octavia Spencer), amica dei due e vicina di casa. Roberta ha chiaramente un grande affetto per Mary, ed avverte Frank che sta commettendo un errore, che rischia seriamente di rovinare la vita a Mary; ma lui è irremovibile, curiosamente motivando la scelta di mandare Mary a scuola con la presunta necessità per la bambina di sviluppare meglio le sue “social skills”, la sua modalità di interazione con gli altri.
Ritroviamo Mary durante la lezione di matematica, dove l’insegnante Bonnie (Jenny Slate) chiede alla classe di risolvere addizioni elementari (tipo 3+3=?), che Mary snobba con aria smaccatamente annoiata. Quando l’insegnante decide di “far vedere chi comanda” a Mary, ponendole quesiti incrementalmente più complessi (che l’insegnante stessa risolve solo grazie all’uso della calcolatrice), ben presto scopre che la bambina è in grado di eseguire moltiplicazioni a cifre multiple e radici quadrate (non intere!) a mente, e a tempo di record. Più tardi, la visita della direttrice alla classe si apre con Mary che le ordina di attaccarsi al telefono e chiamare Frank, per dirgli di venirla a prendere.
Frank viene successivamente convocato dalla direttrice, che gli spiega che Mary è “gifted” e dovrebbe essere trasferita in una scuola per bambini gifted. Frank (che sulle prime finge di non saperne niente, ma poi si rivelerà perfettamente consapevole delle abilità della bambina) si oppone all’idea, e chiede espressamente alla direttrice di limitarsi a “ridimensionarla (“dumb her down”) al livello di una persona per bene”. Gli avvenimenti successivi svelano che Frank in realtà è lo zio di Mary: sua sorella Diane, madre della bambina, è morta suicida quando lei aveva meno di un anno. L’entrata in scena della nonna materna Evelyn (Lindsay Duncan) — facoltosissima snob che non esita ad adire vie legali per ottenere la custodia di Mary, cosicché possa frequentare le scuole più esclusive ed ambire a premi e riconoscimenti — apre finalmente la trama a sviluppi che consentono al film di offrire una finestra su alcune questioni scottanti, e decisamente allarmanti, inerenti non solo la realtà dei bambini (ed adulti) “gifted” negli USA, ma anche il modello sociale ed educativo americani.
Mentre il nostro resoconto sulla trama si ferma qui, per consentire di godersi la pellicola a chi ancora non l’ha potuta visionare, ci preme suggerire al pubblico alcune possibili chiavi di lettura di un lavoro che analizza una realtà complessa e, soprattutto, assai delicata, visto che traumi gravi vissuti durante l’infanzia sono destinati a creare danni quasi sempre permanenti alla personalità di un individuo. Ed è particolarmente difficile cogliere il gran numero di problematiche condensate in questa pellicola per chi non conosca la realtà sociale ed educativa degli USA.
Partendo dal livello di lettura più superficiale, il primo merito del film è quello di introdurre la tematica della “giftedness” in un’epoca ed una società che ne hanno colpevolmente voluto ignorare l’esistenza per troppo tempo. Bambini come Mary (e gli adulti che poi diventeranno) sono sempre esistiti. Nella società americana odierna, si sentiva più che mai il bisogno di un punto di vista più rispettoso nei confronti di questi individui.
Volendo muovere l’analisi ad un livello più approfondito, il reale merito del film è l’impegno profuso nel mostrare la giftedness dal punto di vista dei bambini. In ogni fase della pellicola, Mary è importante quanto e più degli adulti; lo spettatore (purché attento) è sempre consapevole del suo stato d’animo, delle conseguenze che le scelte fatte dagli adulti hanno per lei. A dispetto dei suoi 7 anni, Mary mostra sempre di comprendere molto bene quello che accade, rivendicando spesso a gran voce il diritto, che gli adulti continuamente le negano senza troppi complimenti, di avere voce in capitolo sul proprio destino, sulla propria vita. Mary soffre quando è costretta ad interagire con i pari età in ambito scolastico: li trova noiosi, e lo dice apertamente a Frank. Si oppone con tutte le forze alla “sistemazione” che il giudice ad un certo punto imporrà per lei: sa benissimo che si tratta di un “rimedio” assai peggiore del (presunto) “male” che vorrebbe eliminare. Comprende esattamente chi l’ama e le vuole fare del bene (Frank e Roberta), e chi invece è spinto da altre motivazioni. Ed alla fine del film scopriremo che aveva ragione su tutto. Questa è — purtroppo — l’essenza della vita di questi bambini: essere anni luce avanti anche rispetto agli adulti, che avrebbero la responsabilità di fare scelte per loro, ma non hanno l’intelligenza e l’umiltà di lasciarsi guidare dai bambini stessi.
Attraverso gli occhi di Mary osserviamo un mondo in cui gli adulti (genitori, affidatari, parenti vari, insegnanti, “professionisti” del counseling, rappresentanti di autorità e servizi) vengono continuamente meno alle proprie enormi responsabilità nei confronti dei bambini: proteggerli, prepararli alla vita, educarli, garantirne la sicurezza e, soprattutto, offrire loro tutto l’affetto di cui hanno un bisogno così marcato nei primi anni di vita. Evelyn è una madre narcisista che, apparentemente indifferente al fatto di aver distrutto la vita della propria figlia fino a spingerla al suicidio, pur di soddisfare la propria smisurata ambizione è pronta a riservare lo stesso trattamento alla nipote — di cui, prima di conoscerne le doti, si era completamente disinteressata. Il padre biologico di Mary ha abbandonato Diane e Mary immediatamente dopo la nascita della bambina e si è (anche lui) completamente disinteressato di lei, fino a quando Evelyn lo ha rintracciato e convinto a sedersi sul banco dei testimoni. Lo stesso Frank, che nutre un affetto autentico per Mary, e vuole proteggerla dal destino di schiavitù che ne ha ucciso la madre, è purtroppo divorato dal senso di colpa per non avere ascoltato Diane quella fatale notte (prima di suicidarsi, Diane aveva chiesto di potergli parlare, ma lui, già in ritardo per un appuntamento galante, l’aveva lasciata ad aspettare, per poi trovarla morta nel bagno al suo ritorno, con Mary che giocava in soggiorno). Pur essendo mosso dai migliori sentimenti e dalla consapevolezza del significato di vivere una vita sotto la pressione costante degli adulti, l’insicurezza generata dal senso di colpa gli fa commettere errori gravi — errori che potrebbe evitare se prestasse ascolto alla bambina, che cerca in ogni modo di fargli capire ciò di cui ha realmente bisogno.
Per concludere l’analisi, attraverso il contrasto fra Mary e gli adulti il film punta metaforicamente i riflettori su quello che è un “nervo scoperto” nel dibattito accademico sulla giftedness: l’abisso che divide due modi di intendere la “giftedness” stessa, fra i professionisti che se ne occupano. Esistono infatti, fra gli “addetti ai lavori”, due visioni diverse della “giftedness”: la visione “talent development”, basata su un’idea utilitaristica di sviluppo del “talento” dei bambini con riconoscimento esterno da parte degli adulti, e quella “child-centered”, che pone l’accento sulle esigenze e il mondo interiore del bambino (anziché sulle aspettative degli adulti). Si tratta di una differenza che, spesso, è del tutto ignorata da chi fa informazione sulla giftedness, sia a livello divulgativo, sia allo scopo di formare gli insegnanti o assistere i genitori. È assai probabile che la gran parte dei futuri spettatori del film non sia consapevole dell’esistenza di due scuole di pensiero, due maniere altamente contrastanti di intendere la giftedness — in questo senso, il film fornisce un contributo molto importante all’informazione su questa tematica. A questo riguardo, spiace osservare che il titolo scelto per il film in Italia aggiunge — alquanto arbitrariamente — quel “il dono del talento”, di cui non appare traccia nel titolo originale, che è semplicemente “Gifted”. Essendoci una differenza netta fra talento e giftedness — vale a dire: avere uno o più “talenti” non implica necessariamente essere “gifted” — questo dettaglio genera una certa confusione che, per amore di informazione, sarebbe stato preferibile evitare.
Per concludere, Gifted non è un film semplice, né divertente, né facile; è un film drammatico, non una favoletta. È complesso come la realtà degli esseri umani che descrive. Ci insegna che si è gifted dalla nascita, lo si è da bambini (Mary) e si continua ad esserlo tutta la vita (Diane). Ci ricorda, attraverso l’esempio di Mary, che la responsabilità degli adulti che hanno un ruolo significativo nella vita dei bambini (gifted o meno) è enorme. Ma soprattutto, il film è un grido d’allarme che segnala i rischi e i danni associati con una visione “adult-centered” della giftedness.
Buona visione!
“we must not only see these children, but must understand, teach, and challenge young gifted minds for their sake and not ours.”
http://www.giftednessknowsnoboundaries.org/share-me/2017/4/12/gifted-we-can-all-do-something-right
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(Riferimenti verificati in dicembre 2019)